La data quality in banca è ormai una premessa indispensabile per guadagnare vantaggio competitivo in un settore dove, ancor più che in altri verticali, la partita della concorrenza è destinata a giocarsi essenzialmente sul piano della corretta gestione delle informazioni. Parliamo delle informazioni relative ai prodotti finanziari che ciascun intermediario immette sul mercato, ma anche di quelle che riguardano i clienti, e soprattutto le loro transazioni. Disporre di dati corretti, integri e coerenti vuol dire poter contare su analisi affidabili per conoscere approfonditamente e in tempo reale il modo in cui si evolvono le condizioni di mercato, le esigenze dei propri interlocutori e il rapporto tra istituto e clienti. Saper reagire con tempestività a qualsiasi cambiamento dei fattori critici di successo su ciascuno di questi versanti significa imparare come soddisfare le aspettative del mercato con largo anticipo e prevenire quindi, sul piano strategico, l'azione dei competitor. Competitor che non sono più, soltanto, gli altri istituti di credito.
La digitalizzazione del settore finanziario ha infatti permesso ai nuovi player di crescere rapidamente, scardinando in pochi anni una serie di regole del gioco che erano valse per decenni e che hanno in qualche modo protetto i big del comparto dai rischi di disintermediazione. Il merito è tutto della capacità della società Fintech di raccogliere, analizzare e utilizzare i dati per migliorare la propria conoscenza del target e del modo in cui questo si rapporta ai prodotti in portafoglio. Facendo della data quality uno dei fulcri su cui si esplica l'agilità operativa e organizzativa del business (le altre parole d'ordine sono cloud e mobile), la banca 2.0 può proiettarsi quasi alla velocità del pensiero su tutte le nuove opportunità, e coglierle.
Per mantenere (o guadagnare) il vantaggio competitivo rispetto a questi nuovi attori, che riescono con sempre maggiore perizia a sopperire con l'innovazione al divario dimensionale con gli istituti tradizionali, è necessario rivoluzionare il modo in cui tutta l'organizzazione considera e tratta i dati. È ovviamente una rivoluzione prima di ogni altra cosa culturale, e non può avere luogo in assenza di un forte sostegno dal top management. Ma servono anche strumenti adeguati, investimenti consistenti e soprattutto la volontà di mettere in discussione tutto ciò che, con la stratificazione delle abitudini, è diventato in qualche caso dogma.
Ed è sempre dai dati che bisogna partire: osservare la propria struttura, valutarne oggettivamente le performance sul piano dell'efficienza e dell'efficacia e fare le scelte giuste senza lasciarsi influenzare dalle decisioni di pancia implica un'analisi accurata a partire da informazioni provenienti da fonti verificate.
La data quality è in questo senso fondamentale per cominciare a scremare gli input, selezionando quelli di valore da quelli ridondanti, non aggiornati o errati. E non parliamo, nella seconda fattispecie, esclusivamente di dati che arrivano dall'esterno: si tende a dare per scontato che le informazioni contenute nei database aziendali siano sempre verificate e quindi veritiere, ma non è così. Errori nell'inserimento manuale, trascrizioni, duplicazioni, o semplicemente record catalogati in modo scorretto possono aver reso nel tempo lo stesso patrimonio informativo della banca inadatto a fungere da base dati per avviare i cicli d'analisi necessari ad accendere la miccia del cambiamento.
Ecco perché controllare sistematicamente le informazioni, riconciliarle là dove conviene ed
eliminarle nel momento in cui si rivelano compromesse, sono le prime mosse da considerare quando ci si approccia al tema degli analytics. La possibilità di guadagnare vantaggio competitivo usando i dati dipende in altre parole dalla qualità dei dati stessi.
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